Mattia Sedda saluta Londra, ma porta Choin al Fringe Festival

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Mattia Sedda
Mattia Sedda

Il comico Mattia Sedda porta il suo spettacolo CHOIN al Fringe Festival di Edinburgo e decide di lasciare il Regno Unito, alla ricerca di un ambiente nuovo e diverso in cui cimentarsi in quello che ama fare da sempre: far ridere la gente.

Mattia Sedda, dal Sud della Sardegna al teatro internazionale

Mattia Sedda
Mattia Sedda

Nato l’8 Dicembre del ’91, arriva (con orgoglio) da Villacidro, località del Sud Sardegna.

Ha sorpreso Londra lo scorso 29 Maggio con il suo show comico Choin al Museum of Comedy, di cui abbiamo parlato anche noi (https://www.londranotizie24.it/e-ora-di-choin-larte-di-essere-se-stessi-secondo-mattia-sedda/).

E quest’estate Choin sbarca al Fringe di Edimburgo, dal 10 al 14 Agosto (23.25 pm al Banshee Labyrinth, Cinema Room). Ingresso libero.

Ma all’indomani della rappresentazione londinese del suo show, Mattia Sedda ha preso la decisione di lasciare la città in cui ha scelto di vivere dieci anni fa, alla ricerca di una nuova dimensione umana e professionale. Gli abbiamo chiesto il perché.

Se tu dovessi descriverti a chi ancora non ti conosce, come ti presenteresti?

Beh, direi che sono un teatrante. Sì, un teatrante comico. Un sardo che cerca di far ridere la gente quando può, o comunque di creare un’emozione. Sono una persona magari un po’ strana vista da fuori, questo mi dicono sempre, ma “normale”.

Mi sento comunque sempre sardo, nel senso che per quanto in passato ci sia stata questa lotta, un po’ un conflitto interiore nel cercare di diventare più cittadino, più italiano, poi più inglese, più posh, perché a Londra poi nel nostro ambito sono tutti posh, è come se a furia di essere esposto a questa cosa qua sia tornato ai miei valori, quelli con cui sono cresciuto.

Mi reputo quindi una persona normale che vuol far ridere la gente, sono curioso, mi impegno molto in quello che faccio, sicuramente la passione è una cosa che mi contraddistingue, è quasi una mia ossessione“.

Penso di essere una persona onesta, sicuramente a Londra vengo considerato meno “normale” perché ce ne sono meno di persone come me, quando dico normale intendo senza pretese.

Il teatro è un ambiente che tende a essere molto elitario e io vengo da un ambiente che non è elitario per niente, infatti adesso vengo da un paese dove le classi sociali non esistono, non è tanto chi sei o come pensi o cosa provi ma più che altro penso di riferirmi inconsciamente proprio al fatto di poter essere approcciabile e di preferire comunque degli ambienti più semplici, che poi sembra la cosa più pretenziosa del mondo. E’ difficile rimanere umani in un posto come Londra, rimanere normali, coi piedi per terra“.

Addio al Regno Unito dopo 10 anni

Quanto tempo fa sei arrivato a Londra? E perché hai scelto di venire proprio qui?

Sono stato dieci anni a Londra e sono andato via l’altro ieri“.

Perché, cosa è successo?

Ho iniziato a fare teatro a vent’anni, a Pisa, all’università.

C’era questo festival internazionale che fanno a San Miniato con attori inglesi, francesi, c’erano anche quelli della scuola Silvio D’Amico (Accademia nazionale di Arte Drammatica a Roma, n.d.r.), e a me quelli inglesi piacevano molto, nel loro modo di recitare.

Sono andato a Londra, in maniera molto ingenua, non c’ero mai stato. Inoltre avevo cominciato a seguire delle lezioni di recitazione e sentivo storie dai miei compagni di corso, a proposito di molta corruzione, poca meritocrazia nella recitazione, gente che faceva il provino con i tacchi a spillo, gente che neanche andava ai provini, però poi aveva la parte“.

Questo, in Italia?

Sì, in Italia. E io, onestamente, per quanto abbia sempre adorato l’Italia, mi sono detto: non voglio finire così.

Cioè, se voglio fallire, voglio fallire per mano mia. La sensazione di non esserci riuscito perché gli altri non me l’avevano permesso, a me non piaceva e pensavo che l’Inghilterra fosse più meritocratica, che anche il livello della verità fosse più alto. Quindi, mi sono detto, voglio imparare dai migliori.

Così feci, sono arrivato a Londra che non sapevo neanche parlare l’inglese, avevo mille euro, ho vissuto in una camera senza porta, come si faceva ai tempi a Londra, prima della Brexit.

C’era solo un letto singolo, una stanza per asciugare i panni che hanno tramutato in una camera da letto.

Ho studiato tanto l’inglese, poi sono entrato nel National Youth Theatre, poi c’è stato il Covid e poi ho fatto una scoperta, tramite una mia ex.

Lei mi diceva ‘Mattia tu sei un clown, sei un clown, sei un clown’. Ma che sta dicendo, pensavo.

Credevo che i clown fossero quelli col naso rosso, che vanno stile Patch Adams a divertire i bambini col cancro.

Ma io non volevo farlo, lavoravo già con i ragazzi autistici, non sarei riuscito emotivamente a sostenere un’esperienza negli ospedali. Ma lei mi diceva “no guarda che non è così, non è solo quello”.

Sono andato a un corso di Spymonkey (compagnia teatrale in UK, n.d.r.) per tre settimane, c’era gente tipo Eric Davis, che è un clown famoso di Los Angeles e altra gente brava. Non avevo mai riso così tanto.

A questo corso di clown ridevo come quando vedevo Zelig ai tempi d’oro, con Aldo Giovanni e Giacomo. Per quanto lo trovassi difficile, perché l’ho trovato molto difficile all’inizio, le prime settimane, le prime due, poi mi sono innamorato di questo genere.

Mi sono reso conto che, come attore, la mia tendenza era fare cose di quel genere“.

Perché hai deciso di lasciare Londra?

Perché Londra è cambiata, come città. Per quanto ci fosse sicuramente una specie di schiavitù moderna pre-Brexit, perché comunque si facevano lavori che adesso sono pagati molto di più, ti licenziavano quasi anche per un cambio turno.

Ma c’era la fila per trovare lavoro come cameriere, non è che fosse tutto oro. Però è vero che Londra era la capitale d’Europa e tu questo lo sentivi.

C’erano un sacco di ragazzi della mia età che venivano per imparare l’inglese, per mettersi da parte i soldi per il “deposito” della casa, in molti avevano tanti grandissimi sogni.

È semplicemente una città che è cambiata, mentre prima ‘sentivi’ gente più creativa, più artistica.

E adesso invece vedo una città molto più basata sulle banche. Lo è sempre stata, storicamente. E per campare a Londra, o lavori in finanza, o in tech.

So che ci sono altri problemi più gravi, nella vita e nel mondo. Ma è cambiato l’aspetto di questa città. Io mi ricordo che uscivo e potevo trovare tante persone come me, molto più internazionali.

Ora i costi fanno sì che non ci sia più prospettiva. Perché per avere una vita normale a Londra devi fare almeno 100 mila all’anno.

E io, che faccio fotografie, insegno ai ragazzi autistici e faccio il mio spettacolo, 100 mila all’anno non li avrei mai fatti. Non vedevo un futuro in cui avrei potuto farli.

Mi sembra che Londra sia una città che riceve poco amore, secondo me è questo il punto. Ha poco amore, pochi centri di aggregazione che formano comunità perché è troppo grande, i quartieri sono morti, siamo tutti sparsi, ovunque e da nessuna parte“.

Nuove idee per il futuro: la prospettiva spagnola

Adesso quindi che sei tornato in Sardegna cosa succede? Che progetti hai?

Sono in Sardegna per un po’, poi farò due settimane a Edimburgo al Fringe, a lavorare come assistente di produzione, e farò anche il mio spettacolo per cinque sere al Banshee Labyrinth che è una bellissima venue al Cinema Room quindi porterò Choin lì, lo farò solo quattro o cinque volte perché i prezzi sono insostenibili. Dopodiché mi trasferirò a Barcellona“.

Perché proprio a Barcellona?

Perché la trovo proprio più simile ai valori di cui stiamo parlando adesso. Per quanto sia molto turistica, ci siano soldi, puoi avere un tenore di vita alto anche senza dover essere milionario.

Io non voglio essere milionario, voglio poter stare bene, che vuol dire avere magari duemila euro al mese, poter uscire senza pensare ‘oddio non posso permettermi un bicchiere di vino’.

E’ inutile avere tutto e non potersi permettere niente“.

Hai già dei progetti a Barcellona?

A Barcellona farò il Barcellona Fringe, che è un Fringe nuovo. Aiuta l’idea che da Barcellona adesso sia più facile essere connessi all’Italia, perché è una città molto internazionale, c’è una grossa comunità italiana molto presente, di più facile gestione perché è una città più piccola ma molto viva.

Da lì poi si crea un ponte per l’Italia perché Barcellona in sé non è una grande capitale del teatro, ma l’idea è che possa rappresentare una base che mi connetta sia a Londra, perché ci sono molti voli, sia all’Italia e alla Sardegna in particolare. Insomma, rappresenta una buona base“.

L’arte di far ridere secondo te è un po’ uguale dappertutto oppure ci sono delle tipologie di pubblico un po’ più ostiche, con cui magari ti è capitato di fare più fatica?

Sì certo, ci possono essere fattori culturali, ma anche legati alle aspettative. Significa tantissimo dove sei, cosa è successo, se prima stava piovendo, se c’era il sole, come sei arrivato a questo spettacolo, quanto hai pagato, se te ne hanno parlato bene oppure no.

Le varianti sono tante: lo spazio è la prima componente e lo puoi controllare, così come puoi controllare la tua performance, il resto è sempre un’incognita.

Tu entri sul palco e non sai chi c’è o come potrà reagire, ed è una cosa estremamente interessante.

Ti faccio un esempio, perché questa è una cosa che non so mai come va: io canto Dragon Ball nel mio spettacolo, intendo la sigla di Dragon Ball perché mi piace Dragon Ball.

Io godo quando canto Dragon Ball, ok sono del ‘91, sono uno scemo e va bene. Quindi cosa succede se hai una sala dove non ci sono italiani?

Le persone dopo una specie di shock iniziale dove credono pensino ‘questo è pazzo’, poi ridono perché capiscono.

Nessuno sa cosa sta succedendo o per chi stia cantando questa canzone, quindi questo crea immagine, umorismo, per cui quando nel pubblico ci sono solo italiani tutti ridono, subito capiscono la canzone, la cantano eccetera, è fighissimo; quando nel pubblico ci sono italiani mescolati agli inglesi è un casino perché succede che alcuni ridono subito (gli italiani), e gli inglesi ridono anche se ancora non hanno capito qual è il gioco.

D’altronde il pezzo è quello e io ovviamente non posso sapere se ci sono italiani in sala“.

Il tuo stato d’animo attuale è proiettato solo nei confronti di Londra o anche un pò nei confronti di tutto il Regno Unito? Prima di arrivare a Barcellona ti sei mai chiesto come sarebbe provare a spostarsi in qualche altra contea, in qualche altra città che non viva gli stessi condizionamenti, anche culturali, di Londra?

Io degli inglesi apprezzo molte cose, ad esempio, a dialogare sono molto più bravi di noi che a volte ci diciamo cose forti in faccia, senza alcuna diplomazia o mediazione.

Ma certe volte è difficile avere una conversazione anche divertente o interessante con gli inglesi perché a volte non ti lasciano accesso e altre volte sì.

Londra mi piaceva perché è internazionale, però non sono un amante della cultura inglese, per quanto abbia imparato molto e tutte le cose che faccio, tutti i lavori che ho elencato li ho imparati perché me li hanno fatti fare a Londra, da un’altra parte non me li avrebbero fatti fare.

Ad esempio, insegnare ai ragazzi autistici. Lo faccio da anni, so che non lo posso fare da nessun’altra parte se non forse negli Stati Uniti perché abbiamo un sistema molto poco liberale dove bisogna avere trecento qualifiche per fare una cosa dove non conta l’esperienza di lavoro certificata, quindi Londra ha capito quello, io l’ho apprezzato molto, come i diritti dei lavoratori, che sono poi i motivi per cui la gente si trasferisce.

Potrei andare da un’altra parte, ma non è la mia cultura in fin dei conti, nel senso che non mi sono mai sentito inglese.

Non è un popolo con cui in generale io mi sento a casa, ho fatto il passaporto britannico, ho imparato a parlare con una pronuncia, con un accento meno forte di quello che avevo prima, quindi l’inglese è corretto, lo insegno, l’inglese, e pensavo che queste cose mi avrebbero fatto ‘sentire parte’.

Ma la verità è che dagli inglesi, soprattutto del sud, c’è sempre questa discriminazione soprattutto per chi ha un aspetto più scuro, più arabo come il mio. Perché mi chiedono ‘Ma i tuoi genitori di dove sono?’ Dico: sono sardi. ‘Ma di dove sono veramente?’

Ci ho messo anni a capirlo. Eppure non ho mai avuto problemi a presentarmi bene, sono una persona educata, pulita, abbastanza affabile credo, ma col tempo mi sono reso conto che questo pregiudizio non mancava mai.

Nel mondo della comedy vedo che, senza nessuna finta umiltà, la gente ride molto, e poi vedo altri comici che magari non fanno ridere però hanno più spazio perché sono persone più simili a chi tiene in mano il gioco.

Quindi sto scappando da questo, sto andando in una città un po’ più moderata.

E’ stato difficile per me andare via dopo dieci anni in cui comunque hai costruito tanto, però c’è un punto in cui devi guardare la realtà obiettivamente e dire ok, non è una cosa personale, che è contro di me, bisogna capire come funziona una società per poter poi comprendere dove ti puoi collocare“.

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