Ho conosciuto Giulietta (Gigi) Tisminetzky all’ultimo “ciak” dell’evento 3,2,1 Action! Era parte del panel di professionisti. Quando l’ho vista afferrare il microfono e prendere parola, ho pensato: “Ah vedi, è Clementine Kruczynski (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) nel corpo di Faye Dunaway“. Una bomba ad orologeria. Clementine però andava e veniva. Si alternavano momenti di genuina vivacità quando raccontava dell’esperienza sui set, in special modo l’entusiasmo nel descrivere il lavoro con Paola Cortellesi; ed altri momenti più Kruczynski in fase di rimozione, più introspettivi.
L’intelligenza emotiva di Gigi Tisminetzky
Quando ci siamo incontrate per l’intervista, abbiamo passato un’ora abbondante a parlare di noi, dell’essere donne, migranti, innamorate del teatro, dei mille volti di Londra, dei sacrifici che fai pur di inseguire una libellula sul prato, di quanto ci sentiamo schiave di un certo retaggio culturale che a volte ci costringe a dire sì, che ci fa sentire colpevoli. In quest’ora ho capito che Gigi ha un’intelligenza emotiva talmente profonda da essere assolutamente in grado di parlare per molte di noi. Di noi donne, ovviamente. E non è un caso che il feedback post visione del suo spettacolo How to kill a chicken costantemente ricevuto da Gigi sia stato: “Stai parlando di me”, e fa male.
Chi scrive ha subito violenza, come molte, troppe donne l’hanno subita e continuano a subirla. Io personalmente lo spettacolo How to kill a chicken non l’ho visto, ma supporto il coraggio, la responsabilità intellettuale e artistica di Gigi Tisminetzky, promettendole di recuperarlo appena tornerà a Londra dal Fringe Festival.
Gigi, grazie per quest’incontro. Comincio col chiederti: perché i solo show?
Forse il primo one-woman show che ho visto e che mi ha davvero colpita è stato Girls and Boys di Dennis Kelly. Ricordo di essere uscita in lacrime dal teatro, colpita dalla potenza di una donna da sola sul palco. L’attrice era bravissima, sottile, raffinata, ma con una potenza incredibile, un talento che rifletteva anche la bellezza della scrittura di Kelly. Tuttavia, l’idea di fare un one-woman show non mi piaceva. Inizialmente, credo fosse per timidezza o insicurezza, non pensavo di esserne capace. Invece…
“Not every man”
Il tuo spettacolo sta avendo un forte impatto sul pubblico. Quali sono state alcune delle reazioni più sorprendenti?
Uomini e donne hanno reazioni molto diverse al mio spettacolo. Le donne escono distrutte, molte mi hanno detto: “È la mia storia, conosco bene quella situazione”. Ho avuto persone che mi hanno scritto dicendo che sono dovute andare a casa perché era troppo da metabolizzare per loro. Sto cercando di creare un sistema di supporto per il pubblico a Edimburgo, parlando con una terapeuta per lasciare almeno un numero di contatto per chi esce scosso dallo spettacolo.
Alla fine dico sempre che questa non è solo la mia storia, ma quella di tante donne. Per gli uomini, invece, vedo reazioni diverse. Alcuni capiscono il dolore, altri, anche se intelligenti, restano un po’ spiazzati. C’è questo senso di distacco, che spesso emerge quando si parla di femminicidio e violenza contro le donne. È una sorta di deresponsabilizzazione: “Not every man”.
How to kill a chiken
Il tuo spettacolo è ambientato in Costa Rica. Puoi parlarci della struttura e dei vari sotto-temi?
Sì, lo spettacolo è ambientato in Costa Rica e si sviluppa attraverso tre momenti di intimità con uomini. Il primo incontro è consensuale e bellissimo. La protagonista si sente libera per la prima volta, esplora il mondo con un senso di libertà che con le mie amiche chiamiamo “Hot Girl Summer”. Questo è il primo incontro.
Il secondo incontro è più complesso. Lei non è convinta, ma alla fine acconsente. È un momento ambiguo e sottile, dove il potere dell’uomo e la sottomissione della donna sono in gioco. Questo è forse il momento più affascinante dello spettacolo.
Infine, l’ultimo incontro è più violento e chiaro nelle sue implicazioni. È qui che si superano i confini, e credo che gli uomini spesso non lo registrino perché vivono l’altra parte della storia.
Ho deciso di smettere e raccontare la verità
Da dove è nata l’idea di questo spettacolo?
L’idea è nata da una mia esperienza personale in una vacanza andata male. Al ritorno, raccontavo aneddoti delle mie avventure amorose in modo istrionico, sempre cercando di far ridere. Ma a un certo punto, mi sono resa conto che stavo raccontando una storia che mi aveva ferita, regalando un humor a destra e a manca, senza soppesare il danno che mi stavo autoinfliggendo. Ho deciso di smettere e raccontare la verità.
Ho sempre scritto molto, ma la paura e la famosa sindrome dell’impostore mi hanno bloccata. Tuttavia, la morte di Giulia Cecchettin e le proteste delle donne a Roma mi hanno dato la carica per andare avanti. Ho capito che questa storia faceva parte di una lotta più ampia contro la misoginia.
Hai trovato il processo di scrittura terapeutico?
Sì, assolutamente. Scrivere mi ha dato controllo e mi ha aiutata a rielaborare l’esperienza. È facile cadere nella colpa e nella confusione, ma scrivere tutto parola per parola mi ha permesso di affermare che sì, è successo davvero. Mi ha aiutata a sopravvivere e a non eliminare il ricordo.
Un uomo bianco, etero, cisgender ha meno occasioni in cui il proprio potere viene messo in discussione
Hai trovato supporto nella comunità artistica?
Quando ho iniziato a esibirmi nei 10 minuti di Scratch Night, i primi che mi hanno dato fiducia sono stati i ragazzi gay. Si sono sentiti compresi, perché si sono trovati in situazioni simili a quelle delle donne. Credo che chiunque possa capire, ma spesso un uomo bianco, etero, cisgender ha meno occasioni in cui il proprio potere viene messo in discussione.
Quando una donna viene violata, una parte di lei muore
Come hai lavorato alla musica e alla costruzione dello spettacolo?
La musica è fondamentale nello spettacolo. Collaboro con una musicista meravigliosa, Midori Jaeger, che è praticamente un personaggio dello spettacolo. Il violoncello, che è il mio strumento preferito, aiuta a creare un mondo fantastico e surreale. Volevo che fosse una sorta di marcia funebre, perché quando una donna viene violata, una parte di lei muore. Il violoncello rappresenta la dicotomia tra vita e morte, tra paradiso e inferno.
Cosa speri di ottenere attraverso questo spettacolo?
Spero di partecipare a una conversazione più ampia sulla violenza contro le donne. È un problema comune che va affrontato culturalmente. Sto lavorando con diverse associazioni benefiche, come Women’s Aid, per raccogliere fondi e sensibilizzare su queste tematiche. Vorrei che il mio spettacolo avesse un impatto concreto.
Hai pensato di portare lo spettacolo in Italia?
Mi piacerebbe, ma ho un po’ di paura. È una storia personale, e presentarla in Italia mi mette ansia. Tuttavia, se riuscissi a trovare delle residenze d’arte e magari tradurlo, sarebbe bellissimo portarlo lì. Sarebbe splendido anche fare dei tour nelle università e scuole, magari come parte di un programma educativo.
Lezioni di autodifesa
Hai considerato collaborazioni con altre artiste o iniziative simili e parallele? Mi viene in mente l’artista Roberta De Caro che organizza workshop di scultura per donne sopravvissute a violenza domestica.
Non conosco bene Roberta, ma da quel che mi dici il suo lavoro sembra assolutamente importante ed in linea con il mio spettacolo, quindi sarebbe bello conoscersi. Vorrei anche organizzare lezioni di autodifesa, magari lavorando con un club di judo, per dare alle donne più fiducia in sé stesse.
La tua famiglia ha visto lo spettacolo?
Sì, mia madre l’ha visto. È stato forte, ma l’avevo avvisata. Lei è sempre stata una sostenitrice delle politiche sociali e delle pari opportunità, quindi credo che sia fiera di me.
Oriana Fallaci e Giovanna Jean Govoni
Esperienze lavorative che hanno lasciato il segno?
Quando ho recitato per il cortometraggio ”A Cup of Coffee with Marilyn” della regista Alessandra Gonnella, io interpretavo un personaggio reale che si chiama Giovanna Jean Govoni. Giovanna è stata la prima PR italiana che lavorava con American Airlines negli anni ’50 sui voli Roma-Los Angeles, portando in Italia tutte le star del cinema.
Oriana Fallaci, che era molto intelligente e ambiziosa, a 19 anni era già entrata in contatto con Giovanna, forse grazie al suo primo lavoro di giornalista. Oriana coltivò questa relazione per andare in America, anche se il giornale non le pagava il volo. Così Giovanna la portò a New York, perché Oriana voleva intervistare Marilyn Monroe. Adoro Oriana e tutto il lavoro che ha fatto; è stata una delle rocce del giornalismo, veramente eccezionale e molto franca.
Il figlio di Giovanna Govoni, con cui mi sono confrontata per preparare il ruolo, mi raccontava che Oriana era determinata, tanto che rompeva le scatole per riuscire ad entrare nelle case delle star e parlare con attori del calibro di Orson Welles. Giovanna ospitava nei suoi salotti i personaggi più incredibili. Il figlio, che ora ha 60 o 70 anni, ricorda di quando era bambino e vedeva queste scene incredibili nel salotto di sua madre. Che tempi!
Essere divisa tra due culture
Hai un libro che hai letto ultimamente che ti ha colpita in modo particolare?
Il libro che sto leggendo ora si chiama Tomorrow, Tomorrow, and Tomorrow. C’è una frase bellissima in cui il protagonista, che è mezzo coreano e mezzo ebreo, dice che quando sei a metà tra due mondi non ti senti mai completamente a casa. Questo sentimento rispecchia molto quello che provo io, essendo divisa tra due culture. Sono italiana, ma mi sento un po’ diversa. Quando vado in Argentina, non sono davvero argentina, anche se parlo la lingua e ho la mia famiglia lì. Le referenze culturali sono diverse.
L’Argentina è bellissima ma anche estremamente provata. Per noi romantici è un luogo affascinante con tutta la sua Art Deco decadente, che ti spezza un po’ il cuore. Ogni volta che ci torno è sempre peggio: più violenza, più povertà. C’è un trauma profondo legato alla dittatura militare, tanto che la gente ha paura dell’autorità e non si fida della polizia. È un paese bellissimo con una cultura magnifica, e amo andarci. Ogni fase della mia vita ha portato una nuova scoperta lì.
Ti senti di appartenere di più al teatro o al cinema?
Non ho lavorato abbastanza nel cinema, quindi mi sento più vicina al teatro. Vado a teatro ogni settimana. Sono una fanatica del teatro e a Londra c’è così tanto da vedere. Ho studiato cinema, quindi è anche parte di me. Da spettatrice, l’esperienza è diversa.
Sogno nel cassetto?
Cavalcare la scena di teatri importanti, come il National Theatre, o l’Almeida!
Gigi portera il suo spettacolo How to kill a chicken al Fringe Festival di Edimburgo dal 13 al 26 agosto, presso l’Underbelly.
Di seguito, il trailer dello spettacolo: