Eugenia Caruso, attrice italiana che si è fatta strada nel Regno Unito, parla della sua carriera tra cinema e televisione, del suo ruolo nella serie Netflix “Mercoledì” al fianco di Tim Burton e delle sue esperienze con registi del calibro di Peter Strickland, Paolo Sorrentino e Robert Zemeckis. Sognando un futuro da detective per la sua prossima parte.
Dalla East 15 Acting School al successo internazionale
Un intenso primo piano di Eugenia Caruso (ph. E. Caruso / LN24).Nata a Roma, dove ha frequentato gli studi di base (scuole elementari, medie e liceo), appena diventata maggiorenne è partita alla volta del Regno Unito, dove ha studiato recitazione alla East 15 Acting School di Loughton. E dove, grazie alla sua determinazione e al suo talento, è diventata un’attrice sempre più lanciata a livello internazionale.
Eugenia Caruso sta costruendo una bellissima carriera, passo dopo passo, diretta dai più grandi registi del mondo: Peter Strickland (che l’ha diretta in Berberian Studio Sound, In Fabric, The Duke of Burgundy), Paolo Sorrentino (col quale ha girato Youth – La Giovinezza), Robert Zemeckis (suo regista in Le Streghe).
Con ancora tanti sogni da realizzare. Ma uno di questi, che proprio in queste settimane la sta portando sugli schermi di tutte le case, è già realtà: possiamo vederla su Netflix, nella seconda stagione di Mercoledì, serie tv dal successo planetario diretta da uno dei più grandi registi del mondo, Tim Burton.
In Mercoledì Eugenia interpreta Louise, l’addetta alla mensa
della clinica psichiatrica Willow Hill, dove viene sedotta da Fester Addams, di cui diventa amante e complice nel mettere in pratica i suoi piani.
Da Sorrentino a Tim Burton, Eugenia Caruso ha lavorato con i maestri
Hai sempre voluto fare questo mestiere? A che età hai esordito?
«Sì certo, e le prime cose che ho fatto sono state a teatro verso i 20-21 anni. Poi intorno al 2007 è arrivato il primo lavoro veramente importante, una tournée dove interpretavo una ragazzina di 17 anni. Quella di Truckstop, dove mi hanno dato poi lo Stage Award al Festival di Edimburgo (Best Actress – The Stage Award for Acting Excellence, n.d.r.).
Dopodiché, sono approdata al cinema un paio d’anni dopo con Berberian Studio Sound (di Peter Strickland, n.d.r.).
Ero apparsa in televisione d’Italia, in Nati Ieri, ne I Demoni di San Pietroburgo (di Giuliano Montaldo, n.d.r.), in parti piccole, comunque carine, per me una bella esperienza. Ma si può dire che la prima parte, un po’ sostanziosa, l’ho avuta proprio in Berberian Studio Sound».
Tu hai lavorato fra Italia e Inghilterra, con attori del calibro di Octavia Spencer, Anne Hataway, Carolina Crescentini, Dakota Fanning, Michael Caine, Harvey Keitel e registi conosciuti in tutto il mondo, come Sorrentino, Burton o Zemeckis. Cosa pensi di aver imparato da loro?
«Ciascuno di loro ha un livello di professionalità altissimo. Tieni conto che molto spesso si sta sul set alle tre, le quattro del mattino. E comunque vedi che queste persone sono sempre prontissime. Sempre super preparate, conoscono il loro script, sanno esattamente quello che devono fare. Tutti i più grandi sono sempre molto, molto preparati. Sempre pronti. In ogni momento».
E così immagino anche con i grandi registi, credo che sotto la loro guida si diventi degli attori migliori, degli interpreti migliori. Da loro che cosa hai imparato?
«Beh, innanzitutto ad ascoltare, perché chiaramente ti parlano, ti dirigono.
E la cosa fondamentale, nel modo in cui si ascolta la direzione, è poi quello di metterla in pratica. Diciamo che io sono stata fortunata e tutti i registi con cui ho lavorato sono stati fantastici nello spiegare quello che volevano. A comunicare la loro visione in maniera chiara.
Perché naturalmente tu come attore arrivi con la tua preparazione, il tuo personaggio, però devi anche essere pronto a cambiare, a cambiare la tua delivery, a cambiare a seconda di quello che ti dice il regista.
Per esempio, letteralmente, Paolo Sorrentino è venuto da me e mi ha detto ‘Senti, mi ricordo il tuo take, il quarto. Fammi il quarto, della tua audizione, quella che mi hai mandato, fammi il quarto’. Proprio così. Si ricordava esattamente quello che gli avevo mandato. Per cui mi ha detto proprio quello che gli dovevo dare. Quindi anche per me è stato molto semplice, perché mi ricordavo la mia audizione. E sapevo esattamente quello che dovevo fare. Robert, fantastico perché anche se purtroppo una delle scene più belle che ho fatto con lui non è finita sullo schermo, ti dava così tanta ispirazione: ‘rifacciamola adesso, però aggiungiamo questo pezzo, aggiungiamo quest’altro’. E’ stato meraviglioso, veramente meraviglioso. Lavorare con Robert Zemeckis è stato un sogno.
E poi anche con Peter. Mi ricordo ancora l’audizione, quando pensai ‘spero proprio di prendere questo lavoro’ perché già lo adoravo come regista, poi avendolo incontrato era anche super simpatico e bravissimo, già durante l’audizione mi aveva dato delle dritte sul personaggio, avevo capito quello che voleva da me. E’ sempre un dono quando un regista è super chiaro e ti comunica esattamente quello di cui ha bisogno, è fantastico perché ti senti subito in sintonia».
E poi sei arrivata alla corte di Tim Burton. Come è successo?
«Con una tape, semplicemente, poi una recall di persona (però Tim non c’era) dopodiché mi è stato offerto il ruolo».
Come ti sei trovata nei panni di Louise?
«E’ stato bellissimo. Tim è un grande. Un visionario. Un mito. Non l’avevo incontrato finché non sono arrivata sul set. Però avevamo fatto le prove del make-up, quindi sapevo, già avevo un’idea di come formare il personaggio, perché chiaramente avevo mandato una tape, avevo fatto delle prove, avevo letto le mie battute, quindi sapevo quello che facevo.
Ma sicuramente nel momento in cui hai i costumi, il make-up, e anche l’input del regista, quindi senti, per esempio, il look che vuole, perché ha tutta una visione delle scene, ti rendi esattamente conto del tipo di personaggio che andrai a interpretare. Il che aiuta, molto».
Le sfide del mestiere e i sogni nel cassetto di una grande attrice

Finora qual è il ruolo più difficile che hai interpretato?
«Sicuramente a teatro. Forse quel primo ruolo, quando mi hanno dato lo Stage Award, è stato un ruolo molto complicato, perché era quello di una giovane che poi finisce per uccidere la madre.
Era un ruolo che aveva anche degli spunti comici, perché io sono una grande fan della commedia, quindi era molto divertente da quel punto di vista, ma lo spettacolo non era in sequenza temporale, aveva delle scene che avvenivano prima, altre che avvenivano dopo, lunghi monologhi, e questa giovane che era un po’ isolata, si innamora di una persona particolare, per cui finisce molto male: nel cercare la sua libertà, appunto uccide la madre.
Pesante a livello emozionale, c’era un lungo percorso di questo personaggio, dall’inizio fino al momento tragico, che passava per tutta una parte, bella, seria, di innamoramento, fino poi a cadere molto velocemente in una cosa terribile, quindi quel passaggio era abbastanza difficile, e il tutto neanche in sequenza temporale, per cui non tanto semplice da rendere.
Un altro ruolo difficile, emozionalmente parlando, è stato quello della signora Santorelli, in The Alienist, stagione 1. Difficile perché si trattava di una mamma che perde il figlio in maniera brutale.
Una mamma giovane, un bambino piccolo. Una mamma italiana immigrata in America, nella New York del 1800, che perde il figlio in maniera brutale. Era un thriller, in costume. Ed è stata una parte veramente durissima.
E anche in questo caso avevo un regista meraviglioso, Jakob Verbruggen, è stato bravissimo, durante tutto il percorso.
Con i registi con cui ho lavorato sono stata molto fortunata».
A questo punto della tua carriera con quale altro regista ti piacerebbe lavorare? Magari uno col quale finora non hai mai recitato.
«Ce ne sono un po’. Ad esempio, Peter Kosminski, che io adoro, adoro il suo lavoro. Anche italiani, come Marco Tullio Giordana. Lo conosco, l’ho incontrato, è una persona deliziosa. Sarebbe un sogno lavorare con lui.
E i ruoli: quando ero più giovane sognavo di fare Giulietta, ma prima sognavo di fare Amleto, e quello è un sogno che mi rimane.
Giulietta non me l’hanno mai offerta, ci sono andata vicino un paio di volte, ma poi nulla. Ho sempre fatto la nurse, la balia. Però per Amleto mi è rimasto ancora tempo, chissà.
Lady Macbeth lo sogno ancora, però a livello di schermo devo dire che sono stata molto fortunata, a me piacciono molto i ruoli tipo Louise, quindi mi piacciono molto i ruoli di
personaggi comici, con una comicità fisica.
Un altro ruolo di questo tipo che mi piacerebbe molto potrebbe essere la poliziotta, nessuno mi dà mai la parte della poliziotta».
Ma la poliziotta tipo detective che insegue, spara, corre, oppure quella in divisa, agente di polizia, magari di campagna, quale delle due?
«L’uno o l’altro, se fossi l’agente di campagna, vorrei essere un’agente di campagna simpatica, se fossi la poliziotta detective, anche in quel caso simpatica, sarebbe divertente, un bella storia thriller. Tipo Montalbano».
Ma adesso, dopo Mercoledì, dopo Louise, che cosa ti aspetta?
«Ho appena finito di girare un paio di cose però non posso parlarne».
E quanto bisognerà aspettare per vedere queste due cose?
«Eh, un po’. L’anno prossimo, forse, probabilmente».
Si tratta di produzioni britanniche? Questo possiamo dirlo?
«Questo te lo posso dire, sì, sono produzioni britanniche. Devo dire che in Italia ho lavorato poco, molto poco. Non ho un agente in Italia, per cui lavoro principalmente con produzioni inglesi e americane».
Posso chiederti se si tratta di due film?
«Uno sì, l’altro è una serie».
Insomma, abbiamo capito che con Eugenia è meglio abituarsi alle trepide attese, che però alla fine portano sempre a un risultato strabiliante. Di quelli che, quando la ritrovi su piccoloo grande schermo, capisci che è valsa davvero la pena di aspettare.